La mappa della delocalizzazione

La delocalizzazione è un processo che consiste nello spostare la produzione aziendale in un paese differente da quello storico. Solitamente, questo processo viene fatto dagli imprenditori a causa di:

  • Tasse troppo alte
  • Costo del lavoro elevato
  • Carenza di infrastrutture
  • Migliori condizioni economiche e/o accordi con i governi
  • Massimizzare i profitti

Nell’ambito dell’Unione Europea, si è evidenziato come l’unità del mercato e la facilità di spostamento di beni e persone abbiano sostanzialmente cambiato gli equilibri delle aziende.Paesi che hanno saputo creare favorevoli situazioni sotto questi punti di vista hanno riscontrato migrazioni massive di aziende. Esempio principale l’Irlanda: 50 anni fa era in una situazione disastrosa e oggi è capitale europea delle aziende tecnologiche (ma non solo).

Loghi delle aziende una volta italiane
Immagine tratta da L’Onesto

Tutti più poveri

Altri paesi, specialmente l’Italia, hanno avuto, a causa di questo fenomeno un sostanziale impoverimento:

  • Aumento della disoccupazione
  • Riduzione delle tasse collezionate dallo Stato
  • Sfaldamento dei tessuti sociali

A tal proposito è bene ricordare un meccanismo abbastanza inquietante: se un’azienda se ne và, le tasse che lo stato collezionava da lei e dai suoi dipendenti vengono riequilibrate con un rialzo delle tasse per chi resta. Questo spinge altre aziende a delocalizzare, col risultato di amplificare a dismisura il fenomeno.

A complicare le cose c’è anche un altro aspetto: diverse aziende che mirano solo al profitto, pur delocalizzando, cercano di ottenere aiuti di stato. Purtroppo, spesso li ottengono. Il risultato è un ulteriore impoverimento del sistema economico nazionale che utilizza risorse che vengono spese per sostenere un’azienda che localmente ha i numeri per sembrare in difficoltà ma globalmente produce profitti.

Delocalizzazione economica

Un altro problema sono i flussi di denaro verso l’estero. Quando un’azienda non produce in Italia ma vende sul suo territorio, il ricavo, pur tassato, passa la nostra frontiera e diventa ricchezza all’interno di un altro stato. Poco importa quale stato sia. La Cina insegna che la strategia è vincente (più della metà del debito nazionale USA è in mano a uomini d’affari cinesi. Lo sapevate?) e porta a condizioni economiche difficilmente sostenibili. Questo si traduce, comunque, in maggiori capitali disponibili per lavoratori esteri rispetto a quelli disponibili in Italia.

Altra nota è il dettaglio che riguarda l’abuso del made in Italy. Se fossimo tutelati veramente, qual è il confine per apporre un marchio del genere? Se faccio le mie scarpe in Italia, mi costano 100. Inizio a far produrre le suole e la tomaia all’estero e le assemblo in Italia , mi costano 80. Sono ancora “made in Italy”? E se facessi produrre tutto all’estero e le assemblassi in Italia? Tecnicamente sarebbero ancora “Made in Italy”, no? Eppure spederei 20 e impiegherei in Italia un decimo (forse) dei lavoratori rispetto a una produzione totalmente italiana.

Per finire un ulteriore problema: se produco mozzarelle a Milano, facendo arrivare camion di latte dall’estero, sto facendo un prodotto italiano?

Anche le materie prime possono essere delocalizzate. Per risparmiare qualche centesimo, magari. Ma viene fatto molto frequentemente. Probabilmente la forma più subdola di delocalizzazione, ulteriore impoverimento del tessuto sociale e economico.

Perdite ambientali e non

Viste le implicazioni, è scontato dire che l’acquisto di quelle calze che costano meno ci faranno risparmiare 50 centesimi ma ce ne faranno spendere due in più.

C’è un ulteriore problema, però: i capannoni. Che ne è dei siti produttivi abbandonati?

Bene: nulla o quasi.

Nella maggior parte dei casi, questi siti restano abbandonati. Scheletri nell’hinterland delle nostre città. Silenziosa testimonianza che la volontà di profitto può prevalere sul tessuto sociale, sulla vita delle persone, sull’umanità in generale. Stablimenti conquistati dal nulla, cadenti, pericolosi. Spesso nemmeno bonificati dai materiali tossici.

A volte riconvertiti ad uso commerciale o ad abitazione, spesso di lusso. Col risultato di trasformare scheletri inutili in altrettanti appartamenti vuoti (perché troppo cari per chi un lavoro non ce l’ha) che, tuttavia, possono aver titolo per essere chiamati “immobilizzazioni”. Con tutto il carico di facilitazioni fiscali e spostamento di tassazione che comportano. Uno spostamento nel finanziario di un peso ormai inutile per il profitto. Tomba del lavoro.

I numeri

Sapete la cosa bella? Avere informazioni sulle aziende che hanno delocalizzato è quasi impossibile: non ci sono parametri “scientifici” per affermare che un’azienda ha delocalizzato la produzione o ha chiuso semplicemente la filiale italiana. Tantomeno si riesce ad avere dati certi su operazioni fatte per difficoltà oggettiva o per massimizzare i profitti.

Il fenomeno è vasto ma l’ultimo studio di cui si ha notizia è quello di Confartigianato del 2013. (Se aveste notizie documentate più recenti, fatecelo sapere)

In questo studio si indicavano 6500 aziende delocalizzate, con un fatturato di 217 miliardi di euro e 835.000 lavoratori italiani spostati all’estero. Hai letto bene: 835.000.

Era la situazione del 2013… Sono passati 4 anni… Il trend non è mai stato favorevole… I numeri di oggi non ci sono. Nessuno si è ancora accollato l’onere di constatare tanto dolore.

Logo dei prodotti 100% peruvianiConsapevolezza

Ora: questo non vuole essere una difesa a oltranza del prodotto italiano. Così come non vuole colpevolizzare alcuna azienda che ha deciso di andarsene. Ma è bene che ogni consumatore sappia cosa sceglie quando decide di comprare un prodotto fatto all’estero rispetto a quello italiano.

Qui dovremmo imparare dai paesi emergenti, che sono talòi perché hanno aggiustato le cose. In Però, per esempio, OGNI prodotto fatto al 100% in Perù (con l’esclusione di alcune materie prime) ha un marchio preciso con l’indicazione “Hecho en Perù”. Perché noi, che vantiamo i prodotti migliori al mondo, non abbiamo nulla di simile?

Consapevolezza: questa è la chiave.

Una mappa?

No. Non è possibile fare una mappa realistica della delocalizzazione: i dati sono troppo frammentati, le aziende non sono trasparenti in questo senso e, con l’esclusione di casi eclatanti, le cose non vengono fatte in una notte.

Il processo di delocalizzazione inizia con una filiale “Per vedere come va” e finisce con gli stablimenti italiani chiusi, la gente a casa, in cassa integrazione e poi nel vuoto.

Certo, a volte le cose finiscono in piazza. Come accaduto alla Kavo Promedi, che produceva attrezzature per studi dentistici. Trasferita in una notte da Genova alla Polonia, oggetto di trattative comunque concluse con un certo numero di lavoratori a casa.

Altre volte, le cose migliorano grazie proprio al tessuto sociale italiano. Come accaduto alla OMSA, calze, che ha trasferito tutto in Tunisia, fregandosene delle sue 320 lavoratrici. Situazione migliorata grazie alla ATL (che fa divani) che ha rilevato il sito produttivo e reinserito 120 lavoratrici.

Altre volte le cose vanno meglio nello svolgimento. Come accaduto per Dainese che ha trasferito la produzione in Turchia ma ha riconvertito il sito italiano in un centro di progettazione e ricerca ad alto livello, riqualificando anche i suoi lavoratori e cercando di minimizzare gli esuberi.

 

C’è una regola per l’industriale e cioè: Fai il miglior prodotto possibile al minor costo possibile, pagando i massimi stipendi possibili.

(Henry Ford)

Alessio Oggioni

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